“La (auto)valutazione di un team”

“La (auto)valutazione di un team”

Partendo dal titolo, una domanda sorge spontanea: dov’è nata l’idea?

Circa due mesi fa, durante il meetup tenuto da Pino Decandia, “Inizia dall’ascolto, l’assessment della trasformazione“, sono stati presentati alcuni casi di assessment applicati a gruppi di team. Questo mese, invece, andremo a parlare di assessment tecnico. Da qui, l’idea di approfondire un altro tipo di assessment, né di tipo tecnico, né effettuato su intere organizzazioni; un assessment “che stia nel mezzo“, una (auto)valutazione di un team.

Sempre più spesso a noi reloaders viene domandato come somministrare un’attività di assessment e di valutazione. Si tratta di un’attività “in bilico”: tra la consulenza, che presuppone domande, una scala di valutazione, tabelle e grafici; e il coaching, che richiede di capire le persone e parlare con loro.

Tutte le volte che mi sono trovato a dover valutare un team, nella difficoltà dell’atto stesso della valutazione, ho dovuto riflettere e capire come poterlo fare in maniera non intrusiva. E’ giusto avere degli indicatori e una sintesi di misurazione (è necessario, anzi, nelle grandi aziende); ma ridursi solo a dei numeri può far perdere quel colore, quell’attenzione ai tratti più umani di ognuno.

Un secondo motivo riguarda il fatto che molto spesso valutiamo i team in modo scolastico, con pagella, numeri, scale lineari; in maniera unidirezionale, con valori che indicano un minimo ed un massimo, dove il massimo è l’obiettivo ultimo da poter (e dover) raggiungere. Così a me sorgono delle domande: “ma quindi, possiamo raggiungere al massimo un cinque? Oppure, non può accadere di peggiorare?”.

Bisogna, invece, considerare anche i possibili momenti di regressione e non seguire più sempre e solo una direzione di miglioramento; un miglioramento al quale tra l’altro viene posto un tetto massimo di punteggio.

Per fare un esempio, è come imparare le lingue: si apprendono meglio parlando con un madrelingua o vivendo nella nazione di interesse. Mentre quando si torna a casa, le capacità linguistiche tendono a subire delle variazioni.

A tal proposito, voglio citare l’Agile Fluency Model di Diana Larsen, un modello di valutazione del livello di agilità delle aziende in base a quanto queste utilizzano le metodologie agili (approfondimenti sull’articolo a questo link).

Perché questo modello? Di cosa tratta?

Come la fluenza nel parlare una lingua dipende dal quanto la si pratica, così la fluenza nell’agilità di un’azienda dipende dall’utilizzo che fa dell’agile nel quotidiano.

Il modello valuta

l’abitudine di esibire la competenza in ogni momento, anche quando siamo sotto pressione
[en: “a habit of exhibiting the proficiency at all times, even when under pressure”]

e afferma l’autrice:

la fluidità è più una questione di abitudini che di abilità. Sebbene la formazione possa insegnare le tecniche sottostanti, l’abile facilità alla base della competenza fluente richiede una pratica deliberata, ponderata e quotidiana per mesi”.
[en: “Fluency is more a matter of habits than skills. Although training can teach the underlying techniques, the skillful ease at the heart of fluent proficiency requires deliberate, thoughtful, day-in-day-out practice over months. It comes from a deliberate investment in learning through practice”]

Un modello intelligente quanto radicale.

Per tornare a noi, buona consuetudine sarebbe quella di rendere il team capace di autovalutarsi anche nella fase di abbassamento della performance, evitando una valutazione dall’alto e riducendo di conseguenza la pressione sul team.

Come si può “far stare a galla” un assessment?

In alcune realtà sono presenti dei sistemi di valutazione sedimentati, con criteri prefissati e assoluti, nonché spesso retrogradi. Da parte mia, mi sono interrogato su delle possibili soluzioni che vi condivido.

  • Passare da una misurazione occasionale ad una valutazione continua, fedeli al principio agile del feedback rapido
  • Snellire i sistemi di valutazione, per renderli più facilmente elargibili e comprensibili anche dagli stessi valutatori oltre che da chi viene valutato
  • Responsabilizzare le persone, per sradicare il binomio valutatore-valutato; come?
    • Condividendo con gli stessi membri del team il sistema di valutazione che si andrà ad utilizzare e inserendo una domanda tipo “su cosa ti piacerebbe essere valutato?”, per poi costruire un questionario più adatto e “personale”.
    • Utilizzando, ad esempio, la tecnica del dissenso rituale (ritual dissent), una tecnica mutuata da una forma di comunicazione tribale: qualcuno condivide la propria opinione, la si ascolta e gli altri del gruppo sono obbligati a dissentire (anche se in realtà sono d’accordo con quanto affermato), spiegando anche il motivo di tale dissenso; non si crea una discussione, ma si riceve un feedback caldo, sfumato, “colorato” su quanto detto.
  • Trasformare una valutazione assoluta, con domande generiche, in una valutazione relativa al contesto.
  • Lavorare su una scala, comprendendo a cosa si riferiscono i vari punteggi e cosa significa per ognuno passare da un punto ad un altro; e ciò ha a che fare con il comportamento delle persone.

Si tratta di piccoli dettagli, spesso sottovalutati. Ma bisogna pensare che un team è più propenso ad un’autovalutazione se questa si basa su un questionario ad hoc, alla cui compilazione ha partecipato lo stesso team.

Io penso che sia estremamente difficile parlare di assessment e valutazione senza parlare di feedback e apprendimento o miglioramento continuo.

Molto spesso, quando si prende in mano il tema assessment, si pensa alla mera valutazione.

In realtà, si sfocia nel feedback prima, con un confronto reciproco sulle risposte date, e nel miglioramento poi, in risposta alle conclusioni raggiunte. E’ buona prassi, dunque, legare ad una valutazione un significato, un cambiamento pratico e visibile.

Cosa bisogna misurare?

Semplicità e sostenibilità della valutazione. Prima regola. A tal proposito, ho preso ispirazione da un articolo di Troy Magennis sulle misure di performance di un team, che riporta concetti che riconduco al quello de “la coperta corta” (approfondimenti sull’articolo a questo link).

Tale modello parla di sei dimensioni, spesso mutualmente esclusive, che competono tra loro nei sistemi di produzione di valore — quindi applicabili ad un team che fa software, un team che fa campagne di marketing, un team che fa pizze — e che vengono utilizzate nella misurazione della performance di un team.

Queste riguardano:

  1. do lots”, la quantità
  2. do it fast”, la velocità;
  3. do it predictably”, la costanza;
  4. do it well”, la qualità;
  5. do valuable stuff”, la valutabilità;
  6. keep doing it”, la resilienza.

E’ risaputo che quando si è chiamati a fare più cose, sicuramente si manifesta un peggioramento in una dimensione, in risposta ad un miglioramento in un’altra; da qui il concetto di “coperta corta”.

Per questo motivo, l’assessment dovrebbe tenere conto dei compromessi che un team è portato a trovare. E queste 6 dimensioni sono applicabili a qualsiasi tipologia di team. Come afferma lo stesso autore dell’articolo:

Il mondo reale è più complesso e richiede alle persone di risolvere i dilemmi”.
[en: “The real world is more complex, requiring people to solve dilemmas”]

Perché un team dovrebbe decidere di autovalutarsi?

La provocazione sarebbe “per iniziare a cambiare le cose”. O quantomeno iniziare ad avere una discussione su cosa è “un problema” e cosa significa “cambiare”.

Siamo d’accordo che ciò comporta esporsi e impegnarsi, ma la critica resta sempre la stessa: “si effettuano survey su tutto, ma non cambia niente”.

Rispondendo all’interrogativo “quale domanda vorresti che ti venisse fatta”, il team ha la possibilità di evidenziare l’esistenza di un reale problema. Alla fine di tutto, le persone parlano, condividono problematiche e difetti, sottolineano le disattenzioni.

Infine, c’è la questione investimento: se si investe poco, facendo survey massive, anonime, progettate con sufficienza, ci ritornerà poco.

Ovviamente, c’è bisogno di un buon livello di socializzazione (ad esempio: avere una discussione sulle domande e gli obiettivi dell’assessment, non solo inviare la survey via email…) per poter introdurre questi nuovi modi di agire.

Come si può assicurare la fondatezza delle “lamentele” dei valutati?

Ci sono diversi tipi di lamentele: quella numero 1 è “non cambierà niente”.

Purtroppo, come dicevo prima, gli assessment di routine fatti sotto forma di questionario anonimo sono un anti-pattern ben radicato in tante aziende.

È abbastanza facile capire quanto e se la lamentela del “non cambierà niente” è fondata: basta andare a chiedere quante volte è stato fatto un assessment (una volta all’anno, quindi con scarsa frequenza), se i risultati sono cambiati nel corso del tempo (di solito sono stabili o peggiorati, segno che non c’era un piano di miglioramento), se c’è stata una condivisione e discussione pubblica di questi dati (di solito si condividono selettivamente solo gli aspetti positivi, perché confrontarsi su quello che non funziona è difficile).

Quindi il “non cambierà niente” passa rapidamente da “lamentela”, oppure “opinione personale”, a “fatto” con una rapida indagine.

Le valutazioni negative in sede di assessment possono essere anch’esse interpretate come lamentele: anche qui capita spesso che “voti negativi” su questo o quell’aspetto di valutazione vengano accolti in maniera scettica da chi sta fuori dal team (il famoso “Non è vero che siamo messi così male”).

Più che verificare la fondatezza delle “lamentele” si tratta di mettere in piedi un approccio che riduca la distanza tra valutatore e valutati, ad, esempio, come dicevo prima, rendendo i responsabili dei team parte attiva e inclusa, e invitare uno o più facilitatori esterni all’azienda.

Per questo il nostro ruolo come facilitatori esterni è importante e delicato, ci troviamo tra l’incudine e il martello: aiutare un’azienda a migliorare, valutarsi, senza incappare in distorsioni ed effetti perversi di cui abbiamo parlato in questo mese dedicato all’assessment.

Perché un manager dovrebbe adoperare un assessment di questo tipo?

Oltre che “utilizzare” questo o quel tipo di assessment, dovrebbe parteciparvi attivamente.

Come dicevo prima, credo sia impossibile separare il tema della valutazione da quello del feedback e del miglioramento continuo.

Facciamo valutazione per capire “come siamo messi” e, tendenzialmente, questi momenti di valutazione arrivano quando ci sono già stati una serie di problemi, per mia esperienza si aspetta fino a che questi problemi non raggiungono una massa critica.

Non siamo portati alla prevenzione, ma alla cura. Ecco, attenzione a vedere i momenti di valutazione come “suggerimenti di cura”, sono solo un primo passo verso la prevenzione.

Chi si occupa di sviluppo software conosce il termine “debito tecnico”, che rappresenta la somma di tutto quello che non abbiamo fatto per migliorare la qualità del software.

Ecco, esiste anche il “debito organizzativo” che accumuliamo quando non ci prendiamo cura della qualità del come lavoriamo assieme.

Se sei responsabile a vario titolo del buon funzionamento di un team — chiamiamoli “capi”, “manager”, “leader”, quello che volete, ci siamo intesi — credo che il primo passo debba essere quello di mettere sul tavolo quali sono i problemi percepiti per capire se anche il team vede, e viceversa.

E’ importante riuscire a prendersi un momento iniziale per misurare le performance dei propri team, perché ciò che risulta da questi momenti è una quantità di informazioni tale da poter lavorare anche diversi anni per il suo miglioramento continuo.

Il miglioramento continuo riguarda tutti, non solo il team che viene valutato, ed è per quello che sottolineo l’importanza di fare esercizi di assessment partecipativi, includendo non solo i membri dei team ma anche le persone nelle vicinanze del team, soprattutto se hanno qualche forma di responsabilità gerarchica o funzionale.

Cito un altro articolo di ispirazione, The banality of measurement di Dave Snowden (approfondimenti all’articolo a questo link).

Una frase mi è rimasta particolarmente impressa:

La maggior parte dei responsabili delle decisioni è distante dal lavoro di coloro che misurano, quindi gli obiettivi diventano un proxy per l’intimità”.

[en: “Most decision makers are distanced from the work of those they measure so the targets become a proxy for intimacy”]

Quello dell’utilizzare valutazioni come surrogato di un rapporto che non abbiamo con le persone di un team è un anti-pattern (una pratica comune che viene utilizzata come “scorciatoia”, creando più problemi di quelli che risolve) assolutamente da smantellare.

Consigli per i manager

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